Questi posti davanti al mare
Reportage narrativo da Carloforte e Calasetta, nei due luoghi d’Italia dove si parla il Tabarchino.
Questo reportage è parte di “Stiamo scomparendo — Viaggio nell’Italia in minoranza”, un libro-reportage su cinque minoranze linguistiche: un viaggio dal Salento al Monte Rosa dove la lingua madre non è l’italiano.
Il canale. Lo chiamano così il tratto di mare che separa l’isola di Sant’Antioco da quella di San Pietro, nell’arcipelago del Sulcis. Il traghetto, come tutti i giorni, fa spola tra i due centri dove il tabarchino è la lingua madre, la Sardegna è “terraferma” e il sardo una lingua quasi incomprensibile. Calasetta e l’isola di Sant’Antioco sbiadiscono all’orizzonte di poppa, Carloforte e l’isola di San Pietro sono ancora un’ombra a prua. Le due isole furono l’approdo dei coloni genovesi provenienti da Tabarka, in Tunisia. Successe poco meno di trecento anni fa. “Tabarchini” li chiamavano. Erano migranti in fuga e in cerca di una terra da chiamare casa, avevano vissuto nel regno dei Bey tunisini per duecento anni, impiegati dalla Genova caput mundi alla pesca del corallo. Laggiù avevano sempre parlato il genovese, assorbirono la cultura locale, impararono a cucinare il couscous che in dialetto diventava cascà, e via così si forgiava una nuova lingua che non ha mai smesso di evolversi: il tabarchino.
La bonaccia del canale, butterata dalla brezza, si apre al traghetto lento e rumoroso. Sul ponte esterno una ragazza siede e fuma dell’erba, l’odore riesce a vincere la pazzia delle correnti d’aria e a farsi cogliere distintamente. A nord-est spuntano le cime delle fabbriche di Portovesme, le ciminiere bianche e rosse scompaiono nella foschia, dietro di loro si alza una schiera di pale eoliche che si può solo immaginare, insieme fanno il fantasma di un passato industriale e la sua redenzione green.
Poco più in là, al polo nord del canale, l’isola Piana, l’isolotto dove sorgeva lo stabilimento per la lavorazione del tonno, che da tempi immemori migra in queste acque tra aprile e maggio seguendo sempre la stessa rotta. Fino a un passato ancora recente è stato una risorsa inestimabile per le genti locali, qualcosa come il bufalo per i nativi americani o la foca per gli Inuit. Anche del tonno non si butta via niente, du tunnu tüttu l’è bun dicono qui. L’isola Piana oggi è privata, ospita un residence esclusivo ed è stata ribattezzata “isola per pochi amici”. Il tonno invece non ha ancora cambiato le sue abitudini, ogni anno torna in zona attratto dall’abbondanza di pesce. In quel periodo i polpi gli fanno largo. Vivono circa dodici mesi, maggio è sinonimo di vecchiaia, così prendono a spopolare il canale, raggiungono le zone scogliere esterne, depongono le uova, muoiono. Quando viene la stagione, i nuovi nati rientrano nello stretto dal basso fondale, che in prossimità del porto di Carloforte è un prato subacqueo di alghe scure depilate qua e là in macchie azzurrissime. Qui il paese si apre alla vista, u pàize lo chiamano in dialetto. È l’unico centro abitato dell’isola di San Pietro. Le palme in fila sul lungomare, una schiera di case color pastello salgono piano sulla collina in uno scenario da borgo ligure in Sardegna. La statua di Carlo Emanuele III di Savoia troneggia nella piazza dello sbarco. Fu il re che concesse l’isola di San Pietro ai tabarchini in fuga dalle persecuzioni tunisine. Successe nel 1738. Un secondo gruppo approdò anni dopo sulla punta dell’isola di Sant’Antioco, e lì fondò Calasetta, nel 1770.
Avvicinandosi alla statua ci si accorge che manca del braccio destro, una mutilazione piuttosto evidente. Si dice che furono gli stessi isolani a spezzarlo, incalzati dall’arrivo dei francesi repubblicani di Napoleone. Vedendoli sopraggiungere scavarono una buca per sotterrare il loro tributo al re, nel tentativo di preservarlo dalla furia antimonarchica. Sembra però che un braccio continuasse a spuntare dalla sabbia, e qualcuno decise di risolvere la cosa con un colpo di mazza.
Piazza della Repubblica, Carloforte, isola di San Pietro.
Nell’edicola di Andrea si avvicendano adulti e bambini. Chi compra giornali, chi matite colorate. Finora tutti hanno parlato il tabarchino, la forza dell’abitudine non risparmia nessun forestiero: che ti piaccia o no, la gente che è solita parlare il dialetto continuerà a farlo anche in tua presenza. E non si tratta di maleducazione, beninteso. Dicono tutti che è una specie di tic, un automatismo, un impulso irrefrenabile, come una spinta inconscia alla conservazione. Se ne scusano, ma è un tic anche quello. E si spiega il motivo per cui, in quasi tre secoli di storia, non sia rimasta traccia dei dialetti portati dai forestieri che qui decisero di stabilirsi. Il tabarchino si è sempre mangiato tutto. «Nel corso dell’Ottocento c’è stata una grossa immigrazione di area campana e dall’isola di Ponza» dice Andrea. «Attualmente quasi il 40% dei cognomi ha origine ponzese. Del dialetto che parlavano quando sono arrivati non è rimasto nulla, l’assimilazione è stata totale. Anche culturalmente. Tutte le culture che sono arrivate nel tempo sono state assorbite da quella tabarchina». Nu t’è imparàu mancu u tabarchin, non hai imparato neanche il tabarchino, è una formula usata scherzosamente per dire che non ti sei voluto integrare.
Andrea fa Luxoro di cognome. Qui ogni cognome racconta una storia, che è parte della storia tabarchina. Luxoro era il cognome del rais del tonno nel 1914. Il rais è una figura mitica, il capo della tonnara, che è il sistema di reti che ancora oggi vengono calate a nord del canale per la pesca stagionale del principe dei mari. Nella storia dell’isola, a memoria d’uomo, il rais Francesco Luxoro è ricordato come l’unico pescatore a morire durante la tipica mattanza dei tonni, colpito in pieno da un fulmine. Andrea è un frutto dello stesso albero. Ha 39 anni, gestisce un’edicola che è anche libreria e cartoleria. È tra i carlofortini più attivi nella valorizzazione della lingua locale, opera come volontario allo sportello linguistico per divulgarne le norme di scrittura e di pronuncia, strumenti comunicativi che sono stati normalizzati a inizio Duemila grazie all’intervento del professor Fiorenzo Toso, linguista dell’Università di Sassari.
«C’è un prima e un dopo Fiorenzo» spiega Andrea. «Sapeva che c’erano queste isole linguistiche a Carloforte e a Calasetta. Ha capito subito che c’era bisogno di norme condivise così ha radunato un po’ tutti i cultori locali, gli enti, le scuole, in un movimento che ha portato all’unificazione ortografica delle due varianti del tabarchino — il carlofortino e il calasettano — che presentano piccole differenze ma che ora si scrivono e si pronunciano allo stesso modo. Prima c’erano più correnti, lui è riuscito a fare sintesi nella confusione. Ed è una cosa che tante lingue minori non hanno».
Fuori dal negozio ha cominciato a piovere. In tabarchino non esiste il corrispettivo della parola “pioggia”. I passanti affrettano il passo e riparano sotto le tettoie, o nel negozio di Andrea che ha le porte spalancate. I quattro grandi ficus ai vertici del rettangolo di piazza della Repubblica prendono a gocciolare, brillano di verde scuro. Dentro c’è chi racconta come questa lingua sia una di quelle, tra le minoritarie, con più vivacità tra i parlanti. Si parla a tutti i livelli della società: in famiglia, per strada, nei luoghi di aggregazione, negli uffici pubblici. La si può sentire anche durante le sedute del consiglio comunale. In tabarchino si può pronunciare il “sì, lo voglio” al matrimonio, e ogni funzione religiosa termina con un’invocazione in lingua. In tabarchino si recitano i classici, come Cenerentola e Cappuccetto Rosso, che diventa Capucéttu Tabarchin. È una vera e propria lingua regolata da norme grammaticali e fonetiche, eppure la legge 482/99 che tutela le minoranze linguistiche non la riconosce come tale. Per lo Stato italiano — ma non per la Regione Sardegna — è semplice genovese dislocato, e non può essere considerata lingua minoritaria passibile di tutela. Qui dicono che il problema è puramente politico, lo spiegano con la metafora della torta: se al tabarchino fosse riconosciuto lo status di minoranza linguistica, avrebbe diritto a una fetta dei fondi per la tutela, e le altre minoranze che godono della 482 sarebbero costrette a rinunciare a un pezzo della loro. Ecco perché il suo riconoscimento è sempre stato ostacolato.
Nella piazza tira un’aria umida di pioggia e di mare. Ha già smesso di piovere. Un anziano siede su uno dei barüffi, le panchine circolari che cingono i fusti dei quattro ficus. È il posto ideale dove sedersi a riposare, per rinfrescarsi all’ombra quando il sole è in vetta, per chiacchierare, per starsene zitti a osservare, per il sacro piacere di perdere tempo. Lui si chiama Giuseppe Ferraro, è nato a Carloforte nel 1930, tra pochi giorni compie 88 anni. Si sta riposando prima di finire il giro di commissioni dal macellaio. «I primi ad arrivare sull’isola erano in quattrocento, cinquecento» dice con voce tremula, si intuisce una erre moscia. «Tra questi, una quarantina di persone si chiamava Ferraro di cognome. Erano i più numerosi». Della sua infanzia racconta che si giocava e si andava a scuola “finché era età”. La ripercorre per sensi. Ricorda l’asilo governato dalle suore di San Vincenzo, il profumo del cibo che preparavano, «Profumo di qualcosa che a casa mia non l’avevano mai cotto». E il rumore del primo bombardamento che gli americani fecero al porto di Carloforte, il 4 aprile del 1943. L’impiegato della compagnia portuale aveva avvisato che sarebbe stato imminente, Cagliari era già stata colpita.
«Il mio babbo non se l’è fatto dire due volte. Abbiamo fatto un po’ di spesa e ci ha portato in campagna. Perché da sempre quasi tutti i carlofortini hanno una casa in paese e una in campagna, la baracca, con un pezzo di terra che era sempre coltivato a vite. Ci si andava ogni settembre per vendemmiare, quell’anno ci si è andati anche ad aprile. Abbiamo sentito il bombardamento da lì. Era periodo di Pasqua, figurati, la gente aveva del buon cibo. Vedevamo arrivare le persone nelle baracche vicine alla nostra. Dicevano che avevano bombardato il porto nell’ora di punta, quattordici o quindici morti».
Fino ad allora tra le poche preoccupazioni di un tredicenne c’era quella di ricavarsi una palla decente avvolgendo carta su carta e farla durare il più possibile coprendola con una calza, o di trovare il modo di ricavarsi un pezzo di farinata dai fornai nei carruggi, i vicoli stretti del paese che durante il giorno diventavano veri e propri ambienti domestici, soggiorni a cielo aperto tra i muri dei palazzi.
I ricordi di Giuseppe Ferraro disegnano un’isola su cui vivere era bello, un luogo di libertà e progresso, come dice lui. «Già nel 1914 qui avevamo tutti la corrente elettrica, quando metà Italia e più andava ancora con il petrolio. C’erano cantieri che facevano barche, c’erano officine, naviganti e tonnarotti, c’era la produzione del sale e le miniere. C’erano tante cose. Io ho fatto la lavorazione del tonno, infatti non mi piace più quello che fanno adesso, non è più lo stesso che mangiavo io all’isola Piana». Anche il lavoro non è più lo stesso, seppur l’istituto tecnico nautico dell’isola continui a forgiare nuove generazioni di naviganti che guadagnano bene e permettono a Carloforte di essere uno dei comuni con il più alto PIL della Sardegna. Ma le attività che in passato resero questo piccolo paese un centro secondo solo a Cagliari sono ormai scomparse. È scomparso il trasporto del minerale dalle miniere del Sulcis. È scomparsa la produzione del sale, la salina accanto al porto oggi è un pascolo per gruppi di fenicotteri. Sono scomparsi i cantieri navali e i maestri d’ascia, i due che restano fanno perlopiù manutenzioni. È scomparso parte dell’indotto legato alla pesca del tonno e gran parte del pescato è destinato a Malta o al Giappone. Non resta che puntare sulle tradizioni come magnete per il turismo, con tutti i rischi del caso, che sono universali. In primis quello di non riuscire più a essere, ma di riuscire solo a rappresentarsi. E tutto ciò, in qualche modo, può minare anche il futuro della parlata.
Giuseppe si alza. Si scusa ma deve andare, che sennò gli chiude il macellaio. Rientrato nel negozio di Andrea trovo Maria Carla, insegnante in pensione, a sua volta volontaria dello sportello linguistico. Anche i suoi ricordi procedono per sensi. Il cri-cri-cri delle pagiasse, i materassi di fieno delle baracche su cui dormiva tutta la famiglia nel mese di vendemmia. E l’odore stesso del fieno, epifania di giovinezza.
E il futuro invece? Chiedo io.
«Uno dei grossi problemi è che tanti sono costretti ad andare via da qui. Finiti gli studi se ne vanno, perché si va dove c’è lavoro, e qui di lavoro non ce n’è più. O si va a navigare… A coltivare la terra sono rimasti solo gli anziani». Tra i più giovani il tabarchino sta perdendo piede. Maria Carla è andata in pensione sei anni fa, allora lo parlava circa l’80% dei bambini delle sue classi, dice. «Sono rientrata due anni fa per un progetto ed erano solo tre o quattro per classe a parlarlo». E una lingua senza giovani parlanti è una pianta senza terra. Andrea dice che la parlata si diffonde per annate: alcune non riescono a farne a meno, altre invece parlano solo l’italiano. Ultimamente sembra essersi diffuso un maggiore interesse, molti ragazzi su Facebook scrivono in tabarchino. «Scrivono pasticci» aggiunge Maria Carla, «Ma è un bene che sentano la necessità di farlo». C’è poi un calo significativo del suo utilizzo in famiglia, che un tempo era la regola. Andrea ricorda del suo approdo all’asilo, parlava solo tabarchino, non una parola di italiano, con la preoccupazione generale delle insegnanti di Cagliari, dove frequentava. Alla fine si è laureato in lingue.
Scuola dell’infanzia, Piana Sud, Carloforte.
Alla scuola dell’infanzia di Carloforte tutte le scritte che indicano i locali riportano la dicitura in italiano, in inglese e in tabarchino. Betty Di Bernardo, insegnante e vicesindaco, me lo fa notare con soddisfazione. C’è poi tutto quello che ci si aspetterebbe. File di appendini con il nome di ogni alunno in testa, disegni alle pareti, bambine e bambini in grembiuli rosa e azzurri che strepitano e sciamano nelle aule. Ma la confusione è giustificata, il mercoledì mattina arriva Enzo. Da diciotto anni viene a scuola a insegnare le canzoni della tradizione. Me ne aveva parlato il giorno prima al negozio di Andrea, diceva che ultimamente c’è stata un’involuzione, come la chiama lui. «I bambini parlano tutti solo l’italiano» aveva detto. «Quasi tutti. Su centrotrenta, a scuola, solo una decina parla il dialetto duro come lo parlo io. È una cosa che sta scomparendo, purtroppo».
«Noi insegniamo le parole, lui suona la chitarra». La voce di Betty mi riporta nell’atrio della scuola. «È una specie di laboratorio, puntiamo molto sulle filastrocche e sui canti della nostra tradizione. La viviamo anche un po’ così, in modo familiare. Vieni, ti offro un caffè». Le voci dei bambini filtrano nel corridoio ovattate dalle porte chiuse delle aule. «Queste sono cose che abbiamo fatto nel 2002. Erano cinque sezioni e ognuna si è presa un argomento». Betty poggia sul tavolo un libro raccoglitore con la storia di Carloforte interpretata dai bambini. Ci sono disegni, collage, testi, filastrocche. «Vedi? Questi sono i pescatori di corallo mandati alla volta di Tabarka. Qui hanno lavorato con l’argilla. Queste sono spruzzature fatte con lo spazzolino, abbiamo cercato di utilizzare diverse tecniche anche per non annoiarli. Ecco la nostra bilancella, la barca tipica carlofortina, a vela latina». Si inumidisce l’indice e volta pagina. «E poi sono arrivati nell’isola di San Pietro». Con lo stesso dito punta alle scogliere dell’isola stilizzata, i bambini le hanno rese con la carta pesta appallottolata, le soffiature con la cannuccia disegnano la schiuma del mare e i suoi moti. «Questa invece è la baracca, che è la nostra tipica abitazione estiva». Annuisco. Me ne hanno parlato, dico. «C’era la cucina, la scala e il solaio, suò lo chiamiamo, dove si andava a dormire sui materassi di paglia».
Si sente del trambusto nei corridoi. Le voci ora arrivano forti e chiare. È arrivato Enzo. Le classi si spostano nell’atrio, i bambini si dispongono e lo guardano accordare la chitarra con la curiosità con cui solo dei bambini possono guardare qualcuno accordare una chitarra.
«Questa è la canzone che ti faremo sentire» dice Betty mostrandomi il testo sul grande libro. «Si canta per festeggiare l’inizio del carnevale, il 17 gennaio, giorno di Sant’Antonio. Si chiama E dîsette de zenà».
Piazza Pegli, Carloforte.
Le nuvole che minacciavano pioggia hanno mantenuto la promessa. La sfilata di carnevale non è ancora partita, aspetta la fine dello scroscio. Si sente dire che alcuni gruppi con i relativi carri non parteciperanno, sconfitti dalle avversità del meteo. C’è chi si appoggia a schiena dritta ai muri delle case, sperando che lassù le tettoie facciano il loro dovere. Un gruppo di anziani fa capannello all’angolo di un palazzo. Si mettono le mani sulle spalle, scherzano e si maledicono. Tra di loro c’è Enzo. Le parlate sono veloci e strette, qualcosa che non avevo ancora sentito. Dietro di loro si scorgono alcuni gruppi della sfilata. C’è il gruppo della banda, vestito da applicazioni mobile con casacche colorate e i loghi di Google, Youtube, Facebook, Instagram, WhatsApp e via dicendo; quello delle signore vestite da farfalle, quello dei laqualunquisti con il Cetto La Qualunque carlofortino sul pulpito del furgone.
Torno con lo sguardo al gruppetto di anziani e penso a quanto possa essere cambiata questa festa, nel corso del tempo. Enzo mi vede e si avvicina.
Racconta del carnevale di una volta, quando la sfilata non era organizzata ma si formava da sé. Il 17 gennaio tutti se ne andavano in campagna, nelle baracche, a far casciandra con amici e parenti. È una tradizione che si mantiene tuttora, praticamente invariata: si mangia, si beve, si cantano antichi stornelli liguri e canzoni della tradizione: E dîsette de zenà, Girumétta, Olidin Olidin Olidena, Uìza de San Pé e altre ancora. In campagna si andava a piedi, e la sera si tornava verso il paese per andare a ballare, così si formava una carovana che via via ingrossava passando per ogni baracca.
Enzo ha 74 anni. «Una bella età ormai. Sono nato qui a Carloforte, e spero di morire qui» dice. Anni fa ha vissuto un anno a Milano e tre anni a Torino, lavorava come impiegato, faceva il disegnatore tecnico. Di quel periodo non si ricorda assolutamente nulla, a dispetto di una memoria di ferro su tutto ciò che riguarda passato e tradizione e vita nel suo paese. «Parlo col cuore. A volte mi chiedo come sia possibile. Ma non sono stato bene. Spostarmi da un paese come il nostro, vedi che è tranquillo, bello. E andare a finire in città caotiche… Lì avevo uno stipendio fisso però, e potevo fare dei conti. Sennò mia moglie mi abbandonava» aggiunge sorridendo.
L’amnesia di Enzo mi riporta a un passo del libro di Ernst Junger, filosofo controverso, grafomane, appassionato di entomologia che negli anni Cinquanta giunse sull’isola di San Pietro a cercare la Saphyrina, l’insetto unico al mondo che si trova solo qui. Non lo trovò, ma scoprì molto altro sull’essenza delle persone e del luogo, e scrisse un libro-diario ritrovato recentemente e pubblicato con il titolo di San Pietro (1957). Vi si legge di un incontro avuto in campagna con un carlofortino “intento a sbrigare tutti quegli affari che Virgilio descrive nelle Georgiche”. L’uomo era da poco tornato da New York, aveva lavorato nel porto di Brooklyn per fare buoni risparmi. Junger scrive: “Quanto un simile soggiorno non fosse altro che il mezzo per un fine mi apparve chiaro dal fatto che egli seppe a malapena raccontarmi qualcosa in proposito”. E continua. “In compenso, lo zelo con cui si diffondeva sulla coltivazione della vite e sulla pigiatura dell’uva dimostrava quanto qui egli fosse impegnato con tutto il cuore”.
Con Enzo ci siamo salutati alla partenza della sfilata, che in un attimo ha svuotato piazza Pegli. Lui raggiungeva la sua nipotina, io il budello del corteo che ha poi serpeggiato festante per le vie di Carloforte, fino al cineteatro dedicato a Giuseppe Cavallera, medico e socialista piemontese che a fine Ottocento arrivò a Carloforte per organizzare la prima lega sindacale dei battellieri carlofortini e i primi scioperi avvenuti in tutta la Sardegna. “La casa del proletariato”, chiamavano il posto. La carovana che ogni 17 gennaio un tempo scendeva dalle campagne finiva a ballare qui tutta la notte. Anche ora l’interno è gremito di persone e di colori, ci sono soprattutto i più giovani. Ci sono Dorothy del Mago di Oz e Cetto La Qualunque che ballano tra il gruppo degli smiles e quello degli hippies sull’ un, dos, tres di Ricky Martin. Certo non saranno le maschere della tradizione, quelle da gattu, con un sacco di farina con due buchi per gli occhi, i baffi disegnati e gli angoli che sembrano orecchie. Certo non sarà più il carnevale di una volta, quello tipicamente tabarchino, rimasto nel cuore dei più anziani. Ma l’onda del tempo che passa va cavalcata, che sennò ti annega.
Calasetta, isola di Sant’Antioco, via Garibaldi
Nele Pomata è un bancò, un falegname. È l’unico di Calasetta, anche se tiene a specificare che ce n’è un altro che “lavora e paga le tasse” facendo il mestiere. Lui rimane pur sempre l’ultimo depositario di una tradizione che si tramanda da generazioni, e che non è escluso sia partita dai tempi dell’insediamento in questa zona, nel 1770. Suo padre era falegname, suo nonno era falegname, il suo bisnonno era falegname. La sua bottega si nasconde tra i tipici muri bianchi delle case del paese, che dal traghetto in arrivo da Carloforte parevano un mucchio di pietre coperte da una coltre di neve in via di scioglimento. A ovest la costa è frastagliata, gli scogli degradano al largo e affiorano qua e là in punte che compaiono e scompaiono a seconda del flusso della marea. Il faro di Calasetta sorge su uno di questi scogli. È il primo che compare cercando semplicemente “faro” su Google immagini. Completamente circondato dal mare, sorge nella zona che qui chiamano “Mangiabarche”. Durante i mesi invernali il maestrale vi scaraventa contro mareggiate violentissime, un inferno di acqua a cui non ha mai ceduto, rispuntando sempre dalle nuvole di spruzzi, irremovibile e forte come fosse la minuscola punta di qualcosa che è ben piantato nelle viscere più profonde della terra. Fa la guardia alla scogliera, dove tra pietre e macchia mediterranea, al primo caldo primaverile, spuntano orchidee e asparagi selvatici.
La bottega di Nele, si diceva. Un luogo in cui ogni cosa è di legno e ciò che non lo è ambisce a diventarlo assumendone il colore.
Lui stacca una fotografia dal muro, è ingiallita dalla polvere di segatura, la pulisce con uno sparo d’aria compressa. «Questi sono mio padre e mio nonno, con i tre ragazzi che li aiutavano. Lavoravano qua, erano in cinque con una sola macchina, in uno spazio che allora era più piccolo di quello che vedi, perché quella metà era parte dell’abitazione». Distende qua e là le braccia per dare un’idea. Porta una berretta, occhiali da vista che cadono sul naso, ha gli occhi dolci e il sorriso che si infossa tra le guance e il mento. Nel suo volto qualcosa ricorda Braccio di Ferro.
Al muro sono appesi vecchi attrezzi del mestiere. «Quella avrà almeno cent’anni» dice. Indica una vecchia sega, di quelle che si usano a quattro mani, due di qua e due di là. Si chiama verdughilu in tabarchino, un termine di origine sarda, come tanti altri nel tabarchino di Calasetta, il calasettano, che ha subìto l’influenza del sardo parlato nel comune che dà il nome all’isola, Sant’Antioco, da secoli collegato da un ponte alla “terraferma”, la Sardegna.
Ai tabarchini che arrivarono sulla punta dell’isola dove ora sorge Calasetta fu dato compito di coltivare la vite, la terra fu divisa in lotti, da pescatori diventarono contadini e assorbirono terminologie nuove, campestri, tipiche dell’entroterra sardo. È questo l’aspetto che distanzia il calasettano dal carlofortino. È una differenza che, come spesso accade, trova una sintesi nella tradizione culinaria: la pasta alla carlofortina ha come ingredienti base il tonno e il pesto alla genovese; il pilau calasettano unisce i crostacei — di cui l’arcipelago ha sempre abbondato — e la fregola sarda, in una reinterpretazione del pilaf nordafricano.
Prima di arrivare da Nele ero a pranzo da Franca, gli ottant’anni più energici che abbia mai conosciuto. Per tutta notte aveva cucinato il tipico cascà, il couscous tabarchino. Nella sua cucina mi spiegava che la semola va preparata con calma, bagnata con un filo di acqua, poco alla volta, e girata continuamente per non far grumi. L’operazione è detta arundiò u cascà. La mimava abbracciando una pentola in terracotta che apparteneva a sua nonna.
Tu hai figli? Chiedo a Nele.
«No. Purtroppo questo lavoro è un vicolo cieco che finisce con me».
Non ha figli ma ha ancora tutte quante le dita, cosa rara per un falegname. Le distende per indicare la porta d’ingresso della falegnameria. Dice che è la cosa a cui tiene di più, qui dentro. «Ha un anno più di me. L’ha costruita mio padre quando si è sposato, nel 1956. È una porta specifica che si dice “a farfalla”, più comunemente detta porta tabarchina, una particolarità di Calasetta e Carloforte. Le cerniere per lo scuro le montiamo sul telaio, quindi sono un corpo indipendente. A Sant’Antioco le imitano, ma non le fanno come noi». Mentre ne parla l’accarezza con la punta delle dita. «Tieni presente che ha ancora la vernice che gli ha dato mio padre, la prima e l’unica. Inizialmente era del verde tipico delle barche calasettane, poi col tempo si è sbiadito e adesso è diventato quasi un’acqua marina. E bada bene: il legno è un povero abete, che è un po’ la Cenerentola dei legni. Non ha avuto mai niente, mai un punto di tarlo. Niente».
Ci salutiamo. Sento la porta chiudersi alle mie spalle, e Nele rimettersi al lavoro. Ripenso al suo cognome, Pomata. È lo stesso di un altro rais della tonnara divenuto celebre nella storia locale. Si chiamava Angelo Pomata, soprannominato “Lallan”. Sotto il suo comando, il 31 maggio del 1909, fu pescata la cifra record di 2047 tonni.
Rimessa di Francesco Feola, pescatore. Corso Cavour, Carloforte.
«Il rais è un monarca assoluto. Ogni suo ordine deve essere eseguito perentoriamente, senza se, senza ma. Eseguito, punto e basta. La tonnara viene calata più o meno sempre nello stesso punto, ma è lui che dà gli ordini affinché il calato sia ben fatto. Ed è lui che dà inizio alla mattanza, quando è il momento giusto». Francesco tiene lo sguardo fisso sulla lunga lenza del palamito che gli scorre tra le dita. Da quella penderanno altre lenze più piccole e i rispettivi ami. Controlla che le distanze siano regolari e rammenda i danni delle murene. Provano sempre a portarsi il boccone nella tana trascinando giù gli ami, ingarbugliando le lenze. Anche con i delfini è sempre una sfida, proverbiali guastatori di reti.
Con lui c’è Gianni, un pescatore più anziano di cui Francesco sembra avere molto rispetto. C’è anche Jack, il Jack Russell di Gianni. Una strana coppia: pescatore e Jack Russell. Penso starebbero bene in un fumetto.
I due uomini parlano della tonnara. È formata da due parti. C’è un’enorme rete che si chiama cudda, una coda che va dalla costa verso il largo per circa un chilometro, si stende dalla superficie al fondale. È la rete che sbarra la strada al tonno “di corsa”, e lo conduce verso la seconda parte della struttura subacquea, la uìza. L’isola è una specie di lungo parallelepipedo di reti diviso in cammie, camere che comunicano attraverso reti mobili, le pórte, che una dopo l’altra si alzano per far entrare il tonno e si riabbassano per non lasciarlo uscire. Le camere hanno nomi diversi a seconda della posizione. Camera di Levante, Bordonaretto, Camera Grande, Bordonaro, Bastardo, Camera di Ponente. E infine la più importante, l’ultima, quella in cui avviene la mattanza: la Camera della Morte. L’unica ad avere una rete anche sotto, sul fondale. Tutt’intorno si dispongono le imbarcazioni dei tonnarotti, quelli che il regista Vittorio De Seta chiamava “i contadini del mare”. Prima di procedere alla mattanza, la ciurma recita la tradizionale preghiera, un’invocazione di buon auspicio ai santi, tra cui San Pietro. San Pé ch’u ne mande na buña pésca, affinché mandi una buona pesca. Il rais è al centro della camera, in posizione sul barbariccio, la piccola imbarcazione da dove dirige le operazioni. Al suo “matta!” i tonnarotti cominciano a sollevare la rete sul fondale, costringendo i tonni a salire in superficie, dove prendono a sbattere e a far ribollire il mare per l’agitazione. Saranno poi arpionati e caricati sui vascelli, mentre il mare si colora di sangue. Perlomeno così succedeva in passato.
«C’erano gli astaioli con le aste lunghe che li avvicinavano, quelli con le aste corte che li agganciavano» dice Gianni. «Mai nella pancia, perché ci sono le uova e sono preziose. Era gente di mestiere. A ognuno poi spettava una parte di interiora di quello che aveva pescato. Lo chiamavano inciümme».
Ora il tonno è mattato “con delicatezza”, i giapponesi lo vogliono intero e senza graffi. Gianni dice di aver partecipato alla mattanza, da ragazzo. «A me mi mettevano a contare, non mi facevano stare in mezzo perché ero piccolo. Mi davano un filo di cocco fine e facevo tanti nodi, contavo i tonni con i nodi. Adesso non è più la tonnara di prima, ci sono due o tre camere e basta. Un tempo era immensa, c’erano uomini con braccia così per tirar su le reti che non erano leggere come quelle di oggi. Oh issa! Ogni volta che tiravano puntellavano la maglia nello scafo in modo che non scivolava».
Ha lavorato anche come tonnarotto di terra, sull’isola Piana, reparto bollitura e inscatolamento. Testa e coda del tonno sono scartate e torchiate, ne esce un olio combustibile. Ciò che avanza è il bàgali, un resto di spremitura fetido ma ottimo come concime. Ti sè de bàgali è un modo locale per dire a qualcuno che puzza.
Fuori la giornata sta tramontando. Francesco lavora in silenzio, ascolta Gianni parlare del mestiere, dei tempi in cui si sapeva che era il posto giusto per calare le nasse perché quei due particolari monti sull’orizzonte del mare si erano allineati. Ascolta di un mondo che non verrà più, come dice lui. Interrompe il lavoro, mi guarda. «Si impara sempre qualcosa dai più anziani, no?».
Siede di fronte alla porta spalancata della rimessa, un locale a una stanza che dà sul lungomare di Carlfoforte, uno di quei posti che altrove sono diventati negozi di souvenir a buon prezzo, pieni di tutte le inutilità che un certo tipo di turismo si aspetta di trovare. Qui però ci sono ancora reti, secchi, galleggianti, cose di pesca che odorano di mare. Si vede il molo che prende il largo sulle acque del canale, al di là degli ormeggi. Con un piccolo sforzo si vedono anche le fabbriche di Portovesme. I due dicono che per un periodo, nel canale, di pesce non se ne vedeva più, probabilmente a causa degli scarichi provenienti da quella zona.
«I tonni erano spariti» dice Gianni. «Nemmeno i battellini venivano più».
Cosa sono? Chiedo io.
«I battellini, le velelle. Organismi che sono una calamita per i pesci, un’alimentazione formidabile. Cominciano ad arrivare a marzo. Se ci sono loro ci sono i pesci, e se ci sono i pesci ci sono i tonni. È tutto un circolo».
Francesco e Gianni sono tabarchini che non discendono dai genovesi di Tabarka ma dai pescatori ponzesi arrivati sull’isola nel corso dell’Ottocento. Il primo fa Feola di cognome. A Ponza c’è un’insenatura che sia chiama cala Feola, «Guarda in internet» mi dice. Il secondo ha origini siciliane da parte di madre, ponzesi da parte di padre. Francesco e Gianni sono parenti. Dicono che inizialmente genovesi e ponzesi hanno vissuto separati, che i secondi non erano ben visti, che raramente le due comunità si incontravano e che non c’erano matrimoni misti e che non tutti la sanno o la raccontano questa cosa. I pescatori se ne stavano nella parte alta di Carloforte, nel quartiere dove sorsero le prime case del paese, alle Cassinee. Avevano il proprio mondo in quei carruggi, ne uscivano quasi esclusivamente per andare a lavorare, per mare o in campagna. Andavano a fare aragoste con gli schifetti, le barche costruite dai maestri d’ascia dell’isola.
«Si buttavano le nasse in mare, con la baderna che era in fibra di cocco. Mi ricordo durante gli autunnali, mio padre con le mani aperte a forza di tirare per recuperarle. Di verricelli non ce n’erano allora». Jack si aggomitola accanto al piede di Gianni. Fa come tante bestie, che si mettono a dormire quando viene buio. «Avevamo i vivai costruiti a bordo proprio, non c’erano le vasche di plastica. Erano come degli imbuti in legno che sfruttavano il principio dei vasi comunicanti. Si toglievano i tappi che erano sul piano dell’opera morta, l’acqua entrava e si fermava quando arrivava alla linea del mare. Lì si mettevano le aragoste. Qualche volta facevamo il mestiere dei pesci lunghi, delle murene. E ogni tanto capitava dentro anche qualche polpo».
Nella stessa vasca si ritrovavano l’aragosta, la murena e il polpo. Che sono nemici storici, dicono. L’aragosta teme il polpo, il polpo teme la murena, la murena teme l’aragosta. E allora restavano così, tutti e tre, immobili. Ognuno sotto il tiro dell’altro, come in un triello. Lo stallo alla messicana in un vivaio di una barca tabarchina.
Reportage contenuto in Stiamo scomparendo: viaggio nell’Italia in minoranza (Ctrl Books, 2018)